Quickribbon Occhio su Roccella: Walter Veltroni: “Che cos’è la politica?”
_@_OcchiO su Roccella _@_ Scelti per Voi: Camilla che odiava la politica - Autore: Luigi Garlando - Casa editrice: Rizzoli. - (Camilla ha dodici anni e vive in un paese di provincia insieme al fratellino e alla mamma. Il papa, in passato braccio destro del Primo Ministro, non c'è più: si è suicidato in carcere sei anni prima, dopo essere stato accusato ingiustamente di corruzione. Da allora Camilla odia la politica e tutto ciò che ha a che fare con essa. Ma un giorno in paese arriva un barbone, che prima la aiuta a ribellarsi a un gruppo di bulli della sua scuola, e poi, piano piano, le insegna che cosa sia la politica, quella vera, quella a cui il suo papa aveva dedicato tutto se stesso. E grazie a quelle lunghe chiacchierate Camilla impara a far pace con la politica e con il mondo, quello dentro di sé e quello in cui vive.)

AdnKronos News

mercoledì, aprile 11, 2007

Walter Veltroni: “Che cos’è la politica?”

N.B. La lezione di cui pubblichiamo il testo integrale è stata tenuta da Walter Veltroni il 12 Dicembre 2006 all'Auditorium Parco della Musica. Questa lezione è diventata un bellissimo cofanetto dvd+libro pubblicato da sossella editore. Durante la lezione sono stati trasmessi brevi filmati e letti passi di scritti di vario genere. È a questi “intermezzi” che fanno riferimento i titoli in grassetto.






“IL GRANDE DITTATORE”
Il discorso che avete ascoltato non fu scritto da un uomo politico.
Charlie Chaplin non lo era, ed è straordinario pensare che questo film fu girato nel 1940. La seconda guerra mondiale era scoppiata da poco. Non sapeva, Chaplin, non poteva sapere. Ma aveva capito. Quando la caduta nell’abisso era solo iniziata, quando Auschwitz era solo un nome, e non l’inferno arrivato fin sulla Terra.
Non è un politico nemmeno il personaggio del film che lo pronuncia, questo discorso. E’ un piccolo uomo, un semplice barbiere, ebreo, lontano dalla politica, estraneo al clima di odio e di intolleranza del suo tempo. Ci si trova dentro suo malgrado, all’inizio senza nemmeno comprendere bene.
Un piccolo uomo, preso negli ingranaggi della grande Storia, che da quella tribuna stipata di uomini in divisa, ansiosi di guerra, trova però la forza, d’istinto, quasi d’incanto, di pronunciare parole di fratellanza e di pace universale, di costruire un discorso senza tempo, incastonato di immagini che trasmettono l’essenza della politica, la sua bellezza, gli ideali e la passione che possono animarla, le aspirazioni che possono renderla alta.
E’ vero: parlare di “bellezza” della politica oggi rischia di sembrare non solo irrituale, ma strano, stridente. Oggi, agli occhi dei più, la parola “politica” appare terribilmente consumata. Nei suoi confronti c’è delusione, distacco, se non rifiuto e ostilità.
Ma non è stato sempre così, nel corso delle vicende umane. Al contrario. E se vogliamo provare a domandarci “che cos’è la politica”, dobbiamo partire da qui. Dal fatto che nella storia la politica è stata sempre al centro delle attività degli uomini. Ne ha determinato le condizioni. Ha indirizzato il loro cammino. Ha influito sulle loro sorti.
“Arte regia”, la definiva Platone, che rilesse in questa chiave uno dei miti più celebri di tutta l’antichità greca, il mito di Prometeo. All’origine della storia dell’umanità – dice Platone – Zeus incarica due fratelli, semidei, Prometeo ed Epimeteo, di distribuire a tutte le specie viventi le “qualità” che consentano loro di sopravvivere. A questo compito provvede Epimeteo, che come spiega l’etimologia del suo nome è “colui che vede dopo”, dunque che non coglie le cose con la cura dovuta, con l’attenzione necessaria.
Epimeteo distribuisce le diverse qualità, e cioè la velocità, la forza, le unghie, gli artigli, alle varie specie viventi, dimenticando però gli uomini. A quel punto, esaurita la scorta delle qualità disponibili, interviene Prometeo, che è invece “colui che vede prima”, ed è quindi saggio, avveduto. Prometeo capisce che deve evitare l’estinzione dell’umanità, che senza le qualità necessarie alla sopravvivenza sarebbe stata abbandonata a se stessa, e compie il furto sacrilego, sottrae ad Efesto e ad Atena il fuoco e il “sapere tecnico”, e li dona agli uomini, che così entrano in possesso di ciò che dovrebbe servir loro per scongiurare gli attacchi delle fiere, per sopravvivere.
Ma gli uomini vivono ancora dispersi, senza aggregarsi tra loro. E così restano vulnerabili, continuano a subire aggressioni, e muoiono. Questo accade, continua Platone, perché essi non posseggono ancora l’arte politica, politiké techne. Occorre a questo punto – così si conclude il mito – un intervento straordinario di Zeus, che dona agli uomini pudore e giustizia, consentendo loro di riunirsi e di fondare città, dalle quali scaturisce l’esercizio dell’arte politica.
Ecco dunque la polis, che per i greci è uno spazio sicuro, ordinato e calmo, dove gli uomini possono dedicarsi alla ricerca della felicità. Il politico è colui che si prende cura di questo spazio. La politica è a servizio della felicità degli abitanti della città.
Verranno poi, molto presto e nel corso dei secoli, le durezze della storia. Verrà il peso assunto dalla violenza e dalle guerre nel dirimere i contrasti tra gli uomini e tra i popoli, e le dinamiche del potere nei rapporti tra Stati e sovrani descritte da Machiavelli. E poi ancora verranno i cambiamenti epocali prodotti dalle rivoluzioni dei commerci e delle industrie, quelli provocati dal rovesciamento degli antichi regimi e dalla nascita di nuovi imperi, da restaurazioni e da movimenti nazionali, dalle lotte sociali. Verranno le rivoluzioni, i conflitti mondiali, e le dittature.
In tutto questo la politica sarà sempre più calata, dagli uomini, nella complessità e nelle profondità della storia. Non sarà più patrimonio esclusivo dei nobili, com’era nell’antica Grecia, dove i lavoratori, liberi o schiavi che fossero, ne erano esclusi. Sarà utilizzata a fini di potere, esercitata per mantenere uguali a se stessi gli ordinamenti sociali, ma anche per rovesciarli, o per tentare di farlo. Sarà usata per togliere libertà, ma anche per restituirla. Per opprimere i popoli, ma anche per risollevarli. A volte si eclisserà, perché non c’è vera politica quando è una sola voce a poter parlare, quando è un solo pensiero a dominare, o quando il rumore delle armi sovrasta ogni altra voce.
Ma sempre tornerà a farsi vedere, perché “la politica – come scriveva Hannah Arendt – è la favola di un tesoro antichissimo, che scompare celandosi sotto i più svariati e misteriosi travestimenti, e di nuovo appare all’improvviso nelle circostanze più diverse, come una fata morgana”.
Oggi, quando siamo ancora agli inizi di un secolo che per tanti motivi ci sembra però già così pesante, che cos’è dunque la politica? A che punto siamo di questa “favola” che da oltre due millenni accompagna la vita degli uomini? La politica è scomparsa dietro uno dei suoi travestimenti oppure ha assunto delle sembianze nuove che facciamo fatica a scorgere?
E’ difficile sfuggire alla sensazione che oggi, mentre tutto si muove velocemente, la politica invece sia lenta, impacciata, in ritardo. Non è qualcosa che riguarda solo il nostro Paese, solo noi italiani. E’ qualcosa di più ampio e di più profondo, che interessa tutte le società occidentali, tutte le grandi democrazie contemporanee.
Proviamo a capire, e cominciamo a pensare a quanti cambiamenti hanno investito lo “spazio” della politica, e quindi i suoi confini, le sue forme, le sue chiavi interpretative, persino il suo linguaggio.
Pensiamo solo all’affermarsi di dimensioni più ampie rispetto allo Stato nazionale, che era tradizionalmente la “casa” della politica. Pensiamo al peso assunto da un’economia globalizzata che muove capitali, merci e persone senza incontrare barriere, senza ostacoli in grado di arrestare questo enorme e continuo spostamento. Pensiamo a come è cambiato il volto del pianeta se metà della popolazione mondiale vive ormai in una delle sterminate megalopoli della Terra o in una grande città. Oppure a come sviluppi tecnici e scientifici fino a poco tempo fa impensabili stanno cambiando il nostro modo di lavorare, di mangiare, di curarci, persino di nascere e di morire. E a tutto questo aggiungiamo una comunicazione vorticosa, frenetica, che favorisce il consumo rapidissimo e troppo spesso superficiale delle informazioni, più che un’effettiva conoscenza, più che una sincera consapevolezza.
Non c’è una data, un fatto, un avvenimento, che permetta di dire “tutto è cominciato lì”. C’è però un momento che io credo abbia a che fare, e non poco, con la politica così come la vediamo e la viviamo oggi.

KOHL GORBACIOV – MURO DI BERLINO – TIEN AN MEN
Il rischio, e il coraggio, a volte possono fare la Storia. Sia che appartengano a uno statista, sia che vengano da un semplice uomo, da un ragazzo senza nome che ferma la marcia di una colonna di carri armati, avendo come uniche armi due buste, tenute nelle mani, e il suo desiderio di libertà. Era il 1989. Il 9 novembre di quell’anno finisce la guerra fredda, si chiude il tempo delle grandi contrapposizioni, del mondo diviso in blocchi. Quel giorno, sotto le macerie del Muro di Berlino, restano schiacciate anche le ideologie.
Ideologie che erano una gabbia, che imprigionavano pensiero e libertà, che rendevano nemici gli avversari. Che avevano la pretesa, in nome di fini indiscutibili e di promesse salvifiche, di spiegare il mondo, mentre quel che facevano era piegare i popoli e gli individui. In nome delle ideologie milioni di persone sono state uccise. Ad Auschwitz. Nei gulag staliniani.
Che quel tempo sia finito è un bene. Nessuno può rimpiangerlo. L’Europa oggi è unita. Milioni di persone si sono messe in cammino verso la libertà e la democrazia. Il superamento di quelle fedi assolute ha liberato energie, ha dato forza alle idee e ai valori che animano le culture dell’ambientalismo, del femminismo, dell’interdipendenza, della non-violenza. Che sono nate, non dimentichiamolo, fuori dai recinti delle famiglie politiche tradizionali.
Anche grazie a queste culture, ora la politica è più libera, è più capace, o almeno lo è “potenzialmente”, di avere la concretezza necessaria ad affrontare i problemi senza perdere la giusta e indispensabile carica ideale. Pensiamo solo alla non-violenza, a quanto il suo affermarsi sia condizione essenziale per dare un pieno e democratico valore al conflitto, alla radicalità della critica alla società contemporanea. Che è altro rispetto ai giudizi sbrigativi, o neo-ideologici, che tagliano la storia con l’accetta.
Ma è anche vero che in quel tempo, se pensiamo ad esempio all’Italia, grandi masse di cittadini sono entrate sulla scena politica, hanno contribuito a costruire e a consolidare la nostra democrazia. E’ vero che ci sono stati momenti, nel Novecento, in cui attorno a grandi progetti accadeva si muovessero le energie migliori della società. Ed è vero che grandi passioni, grandi aspirazioni di libertà e di giustizia sociale hanno mosso uomini a spendere se stessi, la propria vita, per dare diritti e dignità a chi senza diritti e senza dignità era sempre stato.

“SACCO E VANZETTI”
Siamo in un altro secolo, in un’altra epoca. E ci accorgiamo che la corrente della Storia sembra aver trascinato via, e portato a valle, insieme al ferro delle gabbie ideologiche l’argento vivo dei valori, degli ideali, dei pensieri profondi.
Ed è un paradosso: proprio mentre potrebbe ritrovare, insieme alla libertà, tutta la sua “bellezza”, la politica è invece prigioniera dei tempi brevi, è appiattita sull’immediato. E’ come impoverita, smarrita. Ha perso il senso delle grandi visioni e vive, quotidianamente, del farsi e disfarsi di veti e alleanze. Fa fatica a decidere ciò che i cittadini attendono e sperano, venendo meno, così, al suo compito. Perché la decisione richiede delega e responsabilità.
E’ una politica che finisce col preferire, per autoconservazione, la fragilità di un sistema alla chiarezza e alla forza di una democrazia vissuta nell’equilibrio tra un potere di decisione e un potere di controllo. L’uno e l’altro affidati all’unico sovrano, in una democrazia: il popolo che vota. Così la politica si ritrae e finisce per scambiare miopia e presbiopia. Finisce per coltivare l’idea che il potere sia il fine e non il mezzo. Parlo dell’Occidente tutto, dell’evidente crisi dei meccanismi di decisione democratica in una società globalizzata e con un’economia forte.
E’ prova di tutto questo la dipendenza della politica moderna dai sondaggi. Più essi si mostrano fallaci, più ad essi ci si affida. Sono quei numeri a far sapere ai decisori politici cosa pensano i cittadini, come voteranno. Inariditi i rapporti diretti con una società mobile e complessa, ci si affida al valore mediatico di cifre fredde. La politica vera, il tempo lo ha dimostrato, è invece quella di chi sa trasmettere alla comunità il calore di una missione collettiva e sa far sempre prevalere l’interesse generale su ciò che i sondaggi indicano come la momentanea preferenza dei più.
Non abbiate paura, verrebbe da dire. Non abbiate paura di dare il senso di un cammino, non abbiate paura dell’impopolarità di un giorno o di un mese, se fate ciò che ritenete giusto. La politica è “arte regia”, non è una disciplina del marketing. Conta essere, non apparire. Nella vita, non solo nella politica.

“IL CANDIDATO”
La politica non può essere sola immagine. Non può essere solo “far credere”, conquistare la curiosità delle persone per trasformarla in un consenso semplice, veloce, da prendere al volo e da mantenere quel tanto che basta per arrivare alla prossima scadenza elettorale. Gesti, volti e sorrisi sono parte assolutamente naturale di una politica moderna e senza più, giustamente, l’austera sacralità di un tempo. Ma non sono nulla senza idee, senza convinzioni, senza progetti.
E’ la politica a non essere nulla, se si riduce a pensare ai minuti, e non trova la pazienza di piantare alberi. Un albero impiega anni per crescere. Rende molto di più tagliare quelli che ci sono, farne legna e rivenderli, senza preoccuparsi del resto, senza preoccuparsi degli altri e del domani.
Ma se cadono a precipizio gli ideali, se conta solo l’immediato, è facile che una persona, e soprattutto un giovane che si affaccia al mondo, dica: quello che succede fuori non mi riguarda, e anche se mi interessasse non avrei modo di far nulla. Tanto vale che io mi occupi solo di me stesso, della mia vita privata, dei miei interessi.
Si tratta allora di scendere a valle, e di mettersi al lavoro per separare pazientemente ideologia e valori, le cose che possono restare lì, come sedimento del tempo, e quelle che invece devono essere riportate in alto, in superficie, perché sono preziose, perché servono a ritrovare la strada. Tra queste cose, c’è l’esempio dei grandi uomini che di piantare alberi hanno avuto l’amore e la pazienza. A volte sapendo che alla loro ombra non si sarebbero mai potuti sedere.

MARTIN LUTHER KING (“I HAVE A DREAM”)
Cinque anni dopo questa straordinaria giornata di agosto del 1963, Martin Luther King avrebbe pagato con la vita per queste e per altre parole, per il coraggio del suo impegno, per l’amore e la pazienza con cui lavorò alla realizzazione di quel sogno. Lo avete sentito: è un sogno che non è per oggi, è per domani. “Un giorno”, ripete più volte di fronte all’oceano di persone che lo ascolta. E il sogno non è per sé, è per i suoi quattro figli piccoli, è per chi verrà, è per tutto il popolo afro-americano, per i suoi diritti, per la sua libertà.
La politica è questo. Il suo cuore, la sua bellezza, è qui. E’ dare un senso al presente pensando al futuro. E’ pensare se stessi in relazione agli altri.
“La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini”, scriveva Hannah Arendt. Nasce quando l’uomo esce dal buio della sua singolarità, del suo privato, ed è messo di fronte alla presenza degli altri. Nasce, scriveva, “quando la preoccupazione per la vita individuale è sostituita dall’amore per il mondo comune”. La politica, dunque, è “comunanza tra diversi”. E’ condivisione di idee e progetti che possono cambiare le cose, e a volte fare la Storia.
La Arendt scrisse le sue pagine più intense in un tempo di ferro e di fuoco, di totalitarismi e di guerra. In quel tempo ci furono molti, in Italia e in Europa, che del senso e della moralità che la politica può assumere diedero una dimostrazione concreta, facendo quella scelta che cambiò la loro vita e quella del loro Paese.
Scelsero la Resistenza. Scelsero di battersi contro la dittatura e l’intolleranza, contro l’oppressione che priva della libertà. Animarono, per dirlo con le parole di uno dei padri della nostra Repubblica, “una straordinaria esperienza di gente che decise di non lasciarsi vivere, di non pensare alla vita come una chiusura in se stessi”. E’ un’idea, quella di inserire il proprio cammino, libero e individuale, in un percorso da compiere insieme agli altri, che è sempre stata, ed è ancora oggi, di un uomo straordinario come Vittorio Foa, che a chi gli domandava cosa avrebbe scelto di fare tornando ad avere trent’anni ha risposto con queste parole.

VITTORIO FOA
Cosa c’è di più umile e di più nobile insieme? Non chiudersi, unire i propri passi a quelli di altri. Non pretendere di cambiare il mondo tutto insieme e una volta per tutte, come per anni ci si era tragicamente illusi. No, la politica è “non lasciarsi vivere”. Senza rinunciare ad essere se stessi. Senza tralasciare le emozioni, e nemmeno i propri sentimenti.
La politica è qualcosa che è dentro la vita di ognuno di noi, profondamente intrecciata con i nostri sentimenti. Con la nostra moralità, che non è negazione di ogni soddisfazione individuale, ma è intendere la vita come un’esperienza non solo personale. E’ qualcosa che ha a che fare con la necessità di dare un senso profondo, etico, al nostro agire. Ecco un’altra di quelle cose preziose da riportare in superficie.

GIOVANNI BACHELET – GIORGIO AMBROSOLI
Questa lettera, scritta da Giorgio Ambrosoli il 25 marzo del 1975, e ritrovata per caso dalla moglie Annalori sul tavolo dove suo marito aveva lavorato fin quasi all’alba, è una delle cose più emozionanti e più “alte”, dal punto di vista etico e civile, che io credo sia possibile leggere.
E’ un vero e proprio testamento morale, scritto da un uomo che amava profondamente la sua famiglia e il suo Paese. Un uomo “libero e solo, eroe borghese che avrebbe potuto vivere tranquillo con le sue serene abitudini” e che invece – come ha sottolineato chi su di lui ha scritto le pagine più belle – scelse sempre di farsi guidare dalla “passione dell’onestà”. Un uomo che sentiva di essere, nel senso più nobile della parola, un “servitore” dello Stato, e che in nome della legge e delle istituzioni fu capace di resistere prima alle lusinghe, poi alle pressioni e alle minacce, e fece semplicemente ciò che sentiva di dover fare: portò avanti il suo lavoro. Anche quando si trovò di fronte a un muro fatto di arroganza e di insofferenza ad ogni regola, anche quando si rese conto di come fosse grande e perverso l’intreccio tra affari, corruzione, interessi finanziari e cattiva politica. Rimase fedele alle istituzioni. Rimase fedele a se stesso, alla propria coscienza.
La vita pubblica ha bisogno di questo. Di essere arricchita da ideali, da valori morali. Che la loro fonte sia la fede o siano i principi che nascono da una profonda “religione civile”, non c’è motivo di avere timidezza nel dirlo: dobbiamo reintrodurre l’etica pubblica nella politica.
Avete ascoltato le parole di Martin Luther King, avete sentito quanto fosse grande la radicalità della sua critica e forte la sua domanda di cambiamento. Ma anche nel momento in cui chiede al suo Paese di cambiare profondamente le sue regole e il suo modo di vivere, Martin Luther King è pienamente americano, richiama i suoi valori, evoca i monti e le valli dei diversi stati e dà il senso, anche fisico, di un’appartenenza, dell’essere parte di un’identità.
E’ qualcosa che noi italiani dobbiamo riscoprire in pieno, che le nostre culture politiche devono tutte, senza incertezze e parzialità, assumere definitivamente su di sé: la priorità, su tutto, degli interessi della nazione. C’è qualcosa di profondo e di grande che ci unisce, che crea tra di noi un vincolo di reciprocità, un vincolo di cittadinanza, una “virtù civile”, senza il quale una democrazia non funziona, e un Paese, una comunità, in definitiva non esiste.
Lo scriveva già Rousseau: “Non sono le mura né gli uomini che fanno la patria: sono le leggi, i costumi, le consuetudini, il governo, la costituzione, il modo di essere che ne risulta. La patria è nelle relazioni fra lo Stato e i suoi membri”.
Ecco, oggi forse più di ieri, noi dobbiamo aver chiaro chi siamo e qual è il nostro posto nel mondo. Dobbiamo sapere quali sono i nostri riferimenti, affermare senza equivoci che la democrazia, la libertà, lo Stato di diritto, l’economia di mercato – di un mercato regolato, trasparente e solidale – sono i nostri valori, i valori di un Paese europeo ed occidentale.
Noi siamo quello che siamo. Ognuno di noi viene da una storia, ha una cultura e un modo di vivere, di pensare, di credere. Ognuno di noi ha un’identità. Esserne serenamente consapevoli non è un ostacolo all’apertura verso il mondo, è una possibilità in più, è forse la condizione stessa per riuscire a farlo. E’ partendo da se stessi, da ciò che si è, che si possono aprire cuore e mente alla conoscenza e alla comprensione degli altri.
Avete ascoltato come Vittorio Foa concludeva la sua riflessione, con quel bellissimo “non so”. Ecco cos’altro è che alimenta la politica, che la riempie, che la rende affascinante, appassionante: scegliere di farsi accompagnare dal dubbio, dalla curiosità. Dalla voglia di cercare, di “viaggiare”, e di incontrare gli altri, le loro ragioni.
“Se vuoi costruire una nave”, scriveva Antoine de Saint-Exupery, “non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.
E una volta iniziato il viaggio, indispensabile è non pensare che una volta raggiunto un porto non resti altro che gettare l’ancora, ammainare le vele e restar fermi. E non credere che tutto si risolva in un approdo già stabilito in partenza. A contare è il viaggio in sé, ed è la navigazione il vero modo per capire, per adeguare la rotta e la ricerca, per arrivare.
Pensiamo a come può cambiare il significato dei nostri comportamenti. Pensiamo al termine “conservare”. Se lo riferiamo alle condizioni del pianeta, alla pesantezza della mano dell’uomo sull’ambiente, alle risorse naturali dilapidate da uno sviluppo che da tempo non è più sostenibile, ecco che quello che è sempre stato un elemento statico, “conservare”, diventa invece un concetto positivo, innovativo. Diventa, per la politica, un valore.
Oppure pensiamo a tutte le scoperte scientifiche che stanno producendo cambiamenti ancora più travolgenti di quelli seguiti alle scoperte della fisica nucleare negli anni ‘40 o alla diffusione della microelettronica negli anni ‘80 del secolo scorso. Pensiamo alle loro conseguenze su tutto ciò che ha a che fare con la vita umana, con il suo inizio e la sua fine. Pensiamo all’eutanasia, al rapporto tra morale e scienza, alla bioetica, ai meccanismi di differenziazione cellulare decisivi per la comprensione e la cura di molte malattie.
Le domande che vengono in mente, allora, sono diverse. Si possono accostare alla politica parole come dubbio, ricerca, etica, o la modernità in cui siamo immersi richiede solo altro? Oppure, per andare su una strada già percorsa, si può ancora dire che è per “vocazione” che si sceglie la politica? O invece stiamo parlando di una semplice professione, che si intraprende del tutto razionalmente?
Prendiamo la celebre lezione di Max Weber su “La politica come professione”. Weber diceva che la passione, insieme alla responsabilità e alla lungimiranza, non può non animare l’uomo politico, e che poi sta a lui riuscire a controllare questa passione, facendosene spingere ma non fuorviare. Weber stesso, però, non aveva timore a parlare di “vocazione”. Diceva che “etica della convinzione ed etica della responsabilità si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere vocazione alla politica”.

ZACCAGNINI E BERLINGUER
Ci possono essere politici più “di professione” dei segretari di due partiti come la Dc e il Pci di allora? Sulla carta no, non c’è dubbio. Eppure Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer non erano percepiti così dagli italiani. E il perché era nel loro modo di essere, era nei loro volti, nelle loro parole. Li avete visti. Le avete ascoltate. Berlinguer e Zaccagnini avevano una moralità, erano animati da una passione e da una onestà intellettuale che non faceva dubitare della loro vocazione, di quale fosse l’idea della politica che li animava. Credevano in quello che dicevano, e chiunque li ascoltasse lo capiva, e li rispettava.
Allora se scendiamo ancora a valle, e guardiamo con attenzione, vediamo che ci sono subito almeno altre due qualità della politica da recuperare e da far risaltare. La prima è la capacità di essere “popolare”, di essere legata ai sentimenti e alle aspirazioni delle persone, di saper catturare e interpretare almeno un po’ della complessità della loro esistenza.
Guardate, non c’è politica senza valori, senza programmi, senza condivisione. Put the people first: le persone al primo posto. Le loro ansie da condividere, i loro problemi da risolvere, le loro speranze da confortare.
Questa è la cosa importante. Questa è la politica. E’ l’idea del governo delle cose per aiutare la gente. E’ attenzione alle disuguaglianze, agli “strappi” che si creano nella società e che devono essere ricuciti, sostenendo chi è in difficoltà, proteggendo chi non ce la fa da solo, promuovendo la responsabile assunzione del proprio destino da parte di chi è in grado di procedere da sé, avendone l’opportunità.
La politica è l’applicazione concreta di quel principio: le persone al primo posto.

BARACK OBAMA – CONVENTION 2004
La politica, lo avete sentito, non deve mai dimenticare che “siamo tutti collegati come se fossimo un’unica persona”. Deve saper condividere il disagio. Deve stare in mezzo ai problemi degli individui, e cercare le soluzioni.
Non è altra cosa da noi, lo sconforto di una persona anziana non autosufficiente che non sa cosa scegliere, cosa fare con la sua pensione: pagare le medicine che le servono oppure la badante che la accudisce, che il più delle volte è immigrata, e spesso è costretta a non essere in regola. Non è altra cosa da noi, la preoccupazione di un ragazzo che termina gli studi, che si affaccia nel campo del lavoro, e si rende conto che i destini dei singoli continuano a dipendere poco dal talento e dalle capacità, e troppo dal posto che, per così dire, si è avuto “in eredità” nella società.
Senza la serenità che viene dall’avere un lavoro, dall’essere autonoma economicamente, una persona non solo vive nel disagio: è meno libera, è colpita nella sua individualità, nella sua stessa dignità. Lo scriveva Carlo Rosselli: la libertà non accompagnata da autonomia economica “non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria. Libero di diritto, è servo di fatto”.
La politica da tutto questo non può essere distante. La politica o è “intrecciata” con il popolo o non è.
Perché può darsi che oggi, più di ieri, siano le persone affrancate dal bisogno, e quindi più libere. Ma è vero che il bisogno di giustizia sociale non potrà mai dirsi del tutto soddisfatto. Ed è vero anche che più di ieri, nelle nostre società complesse, c’è bisogno di far coesistere il principio di universalità, che vuole tutte le donne e tutti gli uomini uguali nel godimento delle libertà fondamentali, con il principio di differenza, con il riconoscimento e la protezione delle diversità tra gli individui, e con la rimozione di quelle disuguaglianze che ne impediscono il libero dispiegarsi.
Come a dire che sì, gli uomini non hanno uguali caratteri e uguali obiettivi, ma devono avere uguali probabilità di dar prova del loro carattere e delle loro capacità di raggiungere i loro obiettivi. Devono avere la possibilità di manifestare tutto il loro talento. Devono poter essere, e questa è la frontiera ideale che oggi abbiamo davanti a noi, “persone egualmente libere”.
E’ una sfida che oggi è forse più difficile di ieri. Anche perché la condizione materiale nella quale viviamo non ci porta, come accadeva un tempo, a scegliere quasi spontaneamente la via della solidarietà. Quando il lavoro era una catena, alla quale erano attaccate migliaia di braccia, tutte ugualmente costrette allo stesso sforzo, era più facile capire il valore della solidarietà. Anche se metterlo in pratica, tradurlo in lotta per l’uguaglianza, poteva costare tanto, talvolta perfino la vita.
Oggi quella catena c’è ancora. Ma si è fatta invisibile. E’ diventata immateriale, anche se non per questo meno pesante e robusta. Lega ancora tra loro migliaia, qualche volta milioni, di lavoratori. Ma lo fa in modo più sottile, più subdolo, così che ciascuno pensa di essere più libero, mentre in effetti spesso è soltanto più solo, ed è costretto all’incertezza, alla precarietà.
Accade soprattutto ai giovani. Le nostre generazioni, infatti, erano abituate a contare su alcune certezze, sapevano che la vita era scandita da fasi fondamentali che riservavano ovviamente soddisfazioni come difficoltà, ma che erano quelle: lo studio, il posto di lavoro fisso, la pensione. Oggi cos’è la vita di un ragazzo? Finiti gli studi, magari presa una laurea, potrà avere buone opportunità, ma è più facile che dovrà andare avanti con contratti di pochi mesi, e forse sperare nel sostegno economico dei genitori. Non solo la sua pensione sarà un miraggio, se non può permettersi un’assicurazione privata, ma nell’immediato non potrà nemmeno pensare a una casa, a metter su famiglia, ad avere figli.
In una società moderna, nuovi lavori e nuovi diritti possono e devono coesistere. In una società moderna, dinamica e aperta come mai era stato in passato, compito della politica è dissolvere quanto più possibile l’insicurezza, e permettere che a prendere il suo posto siano le garanzie, le capacità, il talento, le idee innovative. La libertà: perché modernità e sviluppo fanno tutt’uno con l’espansione della libertà.
C’è una contraddizione sempre più evidente fra ampliamento delle possibilità individuali di scelta e regolamentazioni rigide, burocratiche, delle risposte collettive.
Una politica piccola è quella che per timore o per ansia di controllo, per i suoi veti e le sue difficoltà, finisce per essere prigioniera di forme barocche e per diventare a sua volta prigione.
Una politica piccola fa la società complicata. Una politica grande fa la società semplice.
Una politica grande è quella sa liberare idee, energie, risorse. Quella che sa sburocratizzare, semplificare, razionalizzare, disegnare regole certe ed eliminare le croste di dirigismo, liberalizzare l’accesso ai mercati e al lavoro. E’ quella che sa riconoscere e accompagnare la capacità di intraprendere, che sa camminare insieme alle componenti più dinamiche della società, alle imprese che sono il cuore del sistema produttivo di un Paese capace di accettare la sfida della competizione mondiale e a tutti quei settori che sono il centro dell’innovazione, della qualità, del futuro.
La società moderna è una società fluida, frammentata, senza più quei centri “fissi” che erano i luoghi di lavoro di un tempo, senza più quella netta suddivisione in classi, con una mobilità sociale che fa giustamente parlare di una “società degli individui”.
E in un certo qual modo il simbolo di questo è Internet, è la Rete, luogo per sua stessa natura fluido, mobile. Luogo di opportunità e di diffusione di idee e conoscenze. Luogo che costituisce la più grande e formidabile rivoluzione del nostro tempo.
Dalla Rete giungono, alla politica, persino dei suggerimenti, delle chiavi di comprensione. Del fatto, ad esempio, che la società non è più strutturata in base ad appartenenze politico-ideologiche forti, e che di questo sono un riflesso anche le competizioni elettorali.
Una politica grande deve essere veloce e aperta come la società, e deve coltivare l’ambizione di conquistare non le “casematte” degli interessi particolari, la cui conservazione finisce per generare staticità, ma il “mare aperto” di un’opinione pubblica nella quale convivono condizioni sociali diverse nel corso di una stessa vita, nella quale abitano più dubbi che certezze, più disponibilità che identità blindate.
Insomma, la politica deve saper parlare a tutti e in forme anche nuove, respingendo i rischi di divisione e di scollamento del tessuto sociale, moltiplicando le opportunità, e indicando il senso di marcia, offrendo una visione, una prospettiva. Se necessario, nei momenti più bui, regalando una speranza.

DE GASPERI (CONFERENZA DI PACE) – CRAXI (SIGONELLA)
Avete visto la fermezza e l’autonomia con cui Craxi, in una delicata crisi internazionale come quella dell’ottobre 1985, della nave “Achille Lauro”, della base militare di Sigonella, difende come Presidente del Consiglio il principio della nostra sovranità nazionale e gli interessi italiani di fronte alle richieste degli Stati Uniti.
E prima avete ascoltato le parole con cui Alcide De Gasperi si rivolge al mondo appena uscito dalla guerra e riunito a Parigi, in quella Conferenza di Pace. De Gasperi sa bene qual è la condizione in cui l’Italia si trova, e sa in che modo all’Italia si guarda. “Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”, dice.
Ma la grandezza dello statista, e in quel momento della politica, è nel modo in cui De Gasperi interpreta la coscienza del Paese e tutela la dignità del popolo italiano, parlando a nome di tutti, parlando – non lo avete sentito, ma è proprio all’inizio del discorso – “come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica, che armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate”.
Il secolo scorso, pur con le sue contraddizioni e i suoi orrori, aveva in sé l’idea positiva del progresso. Guardare avanti, per le generazioni che hanno preceduto la nostra, significava comunque immaginare un mondo e una società migliori. Magari con difficoltà e ostacoli da superare lungo il cammino, ma nel medio e lungo periodo migliori.
Oggi noi viviamo, invece, in una sorta di “età dell’ansia”, nella quale avevamo fatto ingresso anche prima dell’11 settembre, prima che la minaccia del terrorismo internazionale avvolgesse le nostre vite. Siamo immersi nella dimensione dell’insicurezza. E’ la “solitudine del cittadino globale” di cui parla Bauman, che descrive le persone “come i passeggeri di un aereo che si accorgono che la cabina di pilotaggio è vuota, e che la voce rassicurante del capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima”. Di qui, se vogliamo continuare in questa immagine, la ricerca esclusiva del proprio paracadute, della propria salvezza senza pensare a quella degli altri, la chiusura particolaristica, l’innalzare muri contro tutto ciò che non si conosce, che potrebbe comportare un pericolo.
E’ una politica piccola, quella che cerca facili scorciatoie, quella di chi solleticando queste paure, le debolezze delle persone, divide tutto in bianco o nero, in bene o male, in amico o nemico, dove il nemico è sempre l’estraneo.
La “bellezza” della politica, di una politica “alta”, appare quando si riesce a tenere insieme concretezza e valori, ragione e passione.
Lo spiegava già Tocqueville: nella politica, diceva, ci sono due parti, “una fissa e l’altra mobile”. La prima è quella delle grandi teorie, delle leggi generali, dei bisogni permanenti dell’umanità. La seconda è quella pratica, dell’esercizio del governo e della lotta contro le difficoltà di tutti i giorni. Bisogna fare in modo che queste due parti non si separino mai. Perché senza le visioni della prima, senza gli ideali, si rischia di procedere a tentoni. E senza la duttilità della seconda, senza la capacità di concretezza, non si fa molta strada.
Nel corso della storia uomini che hanno saputo fare così, esperienze che hanno significato questo, ce ne sono state. Un decennio del secolo scorso, in particolare, si era aperto con grandi speranze, con un grande sogno.

JOHN KENNEDY – DISCORSO INSEDIAMENTO
Un’intera generazione fu pronta a seguire queste parole, figlie di una visione che era unione di realismo e di idealismo, di decisioni pratiche e di ambiziose aspirazioni. Era una politica che indicava delle possibilità concrete e mostrava una meta, una frontiera da raggiungere, e lo faceva trasmettendo speranza, fiducia, persino gioia di vivere.
Era la generazione che aveva di fronte a sé grandi sfide: per prima quella di allontanare dall’umanità i rischi terribili di un conflitto nucleare, perché è vero che l’uomo ebbe per la prima volta “nelle sue mani di mortale la capacità di abolire tutte le forme di miseria umana e tutte le forme di vita umana”. E poi le altre: sollevare i popoli oppressi dal peso del neocolonialismo, estirpare la discriminazione razziale, liberare la società da quelle strutture che impedivano il pieno dispiegarsi dei diritti di ogni individuo.
Sono passati quarant’anni. Tutto è cambiato. Ma davanti a noi ci sono sfide che non sono più piccole di quelle di allora.

BETANCOURT – MANDELA – MENCHU’
Dare voce e diritti a chi è sottomesso, calpestato, sfruttato, vilipeso. A chi ha meno ricchezza e meno potere, talvolta né ricchezza, né potere. Scegliere uno sviluppo che abbia coscienza dei limiti delle risorse naturali. Ridurre le enormi disuguaglianze che separano tra loro le donne e gli uomini del nostro tempo come uno scandalo intollerabile. Vincere la fame, la malattia, l’ignoranza. Sconfiggere l’Aids, porre fine a una tragedia senza precedenti, che ha già provocato 28 milioni di vittime. Che fa morire, nel mondo e in Africa molto più che altrove, un bambino ogni minuto. Non sono numeri, ma esseri umani. Carne e ossa come le nostre.
Oggi sappiamo che è possibile cambiare l’inaccettabile. E’ un compito enorme, storico, ma è possibile. E io vorrei dire che se anche non lo fosse, la politica, se vuole appassionare e coinvolgere, se vuole ritrovare senso e nuove motivazioni, deve a volte sognare, e far sognare, ciò che sembra impossibile. Perché è vero quel che diceva proprio Weber, e cioè che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.
E mentre porta la mente e il cuore a sognare l’impossibile, la politica deve anche capire dove il terreno è più solido, dove è possibile poggiare i piedi, uno dopo l’altro, un passo alla volta, per avanzare lungo il cammino.

“GANDHI”
Per generazioni di indiani prima di Gandhi, e così per coloro che lo ascoltavano, e riponevano in lui speranza e fiducia, furono sicuramente molti i momenti, e molti i motivi, per credere che libertà e indipendenza non sarebbero mai arrivati. E invece è stato così. Anche sconfiggere l’apartheid, e prima ancora la schiavitù, sembrava impossibile. E invece è stato così.
Così dovrà essere, domani, per la povertà. Ci sono gli strumenti, ci sono le risorse. Quel che serve è la volontà, che non arriverà se a spingerla non saranno la passione e la ragione. Il realismo. Perché non si tratta solo di umanità, solo di giustizia. Nessuno, da questa parte del mondo, ricca e fortunata, può farsi illusioni. Non possiamo pensare di vivere all’infinito seduti sul nostro ramo rigoglioso mentre le condizioni dell’intera pianta dell’umanità continuano a peggiorare.

Passione e ragione, dunque. Valori e concretezza. A dare ali a una politica che per tornare a volare ha bisogno esattamente di questo: di un idealismo pragmatico.
E a questo proposito vorrei concludere con una storia, presa in prestito da un filosofo, Remo Bodei, che l’ha raccontata qualche tempo fa.
Siamo nel 1933, l’anno dell’ascesa al potere di Adolf Hitler. A Berlino, in un Palazzo dello Sport gremito, si svolge un dibattito fra un rappresentante del Partito comunista tedesco, ancora non disciolto, e un rappresentante del Partito nazionalsocialista.
Il primo, di fronte a una platea formata da molti operai socialdemocratici e comunisti, comincia a illustrare il principio della caduta tendenziale del profitto secondo Il Capitale di Marx. Dice cose interessanti, lo fa in modo ineccepibile, ma è decisamente pedante. E’ come se trovandosi di fronte un assetato, invece di dargli l’acqua, gli leggesse l’etichetta della bottiglia, soffermandosi sulla composizione chimica del contenuto.
L’oratore nazista, invece, parla con foga, usa argomenti irrazionali, come quelli della famosa “pugnalata alle spalle” che avrebbe fatto perdere alla Germania la prima guerra mondiale o dell’altrettanto famoso strapotere occulto, con relativo complotto internazionale, degli ebrei. Però attira l’attenzione, è coinvolgente, conquista chi lo ascolta e viene portato in tripudio da quegli operai che erano arrivati al Palazzo dello Sport parteggiando per l’altro uomo politico.
Questo episodio serve a ribadire due cose. Che un’idea, una politica, da sola non cammina. E che le passioni non possono, a lungo, fare a meno di argomentazioni e prove. Da una parte, dunque, nessun programma può avanzare solo perché ragionevole ed efficace. Ha bisogno di essere accompagnato da una visione, deve saper rispondere a quella domanda di senso che ogni società porta sempre con sé. Dall’altra parte, invece, passioni senza verità – in questo caso addirittura aberranti – finiscono per essere parole vuote, rischiano di essere semplice propaganda senza argomenti, e con il tempo vengono portate via dal procedere della storia.
E’ qualcosa di simile all’antica saggezza che faceva dire al profeta di Kahlil Gibran, rispondendo alla sacerdotessa che lo interrogava, che la ragione e la passione sono, per chi deve affrontare la navigazione, come il timone e la vela: senza il primo non si governerebbe la direzione, senza la seconda si rimarrebbe fermi.

“BOBBY”
Abbiamo bisogno di ritrovare la passione per la politica. Di riscoprirne la bellezza, e insieme il suo essere lo strumento più alto e nobile di cui gli uomini concretamente dispongono per tracciare il loro cammino, se saranno capaci di restituirle la saggezza, il pudore e il senso di giustizia di cui parlava Platone. Abbiamo bisogno di stare con i piedi ben piantati in terra, e insieme di tornare a sognare. Anche quel che sembra impossibile, irraggiungibile. Quel che sembra utopia.
Il perché ce lo ha spiegato un grande scrittore sudamericano, attento alle cose della vita e del mondo. “Lei sta all’orizzonte”, ha scritto Eduardo Galeano. “Mi avvicino due passi, lei si allontana due passi. Cammino dieci passi, e l’orizzonte si allontana dieci passi più in là. Per molto che io cammini, mai la raggiungerò. A che serve l‘Utopia? A questo serve: a camminare.

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